martedì 19 luglio 2011

Piccole conclusioni quotidiane - Parte seconda



Seconda conclusione: bisogna tagliare delle teste.
Non prendetemi alla lettera. Quel che intendo dire è che la vita non è facile, è come gettarsi in una guerra con una spada tra le mani: il colpo va sferrato. Per quanto l’avversario ci somigli o quella guerra sia ingiusta, non sempre è possibile rifugiarsi sull’Aventino. A volte per proseguire dobbiamo effettuare delle scelte o passeremo interi anni a compiere l’unico e misero atto di difendersi dalle spade nemiche. Tattica assai ottimale per chi non vuol macchiarsi le mani del sangue altrui, ma che non permette di avanzare. Si può certo temporeggiare e, a seconda della bravura dello spadaccino, lo si può fare anche per un tempo piuttosto lungo, ma non per sempre. Il soldato coraggioso va avanti, perché conosce la meta. Non è certo di arrivarci, ma ci prova. Morire di vecchiaia sul campo di battaglia sarebbe abbastanza sconfortante.

Traduzione: quando si vive, per davvero, non è possibile esimersi dai sensi di colpa. La differenza tra la giovane età e quella più matura sta proprio in questo: prima o poi si diventa consci del fatto che non è possibile accontentare tutti, per quanto lo si desideri.

Certe scelte portano con sé immani sacrifici, morali, economici e così via. E ad ogni scelta consegue una responsabilità, con il suo inscindibile elefantiaco peso. Così, cerco conforto in un bicchiere vuoto, in qualche foto, nella Speranza.
Non si può avere tutto. Questo è ciò che mi ripeto mentre il senso di colpa diventa talmente grande da provocarmi la nausea. Ho sempre pensato che questa sensazione fosse un’espressione figurativa, invece no, è reale. Inizialmente è il cuore; i suoi battiti aumentano pian piano, come se una mano lo stesse virtualmente comprimendo contro il petto a tempi aritmici. Poi è il respiro, che inciampa nell’arte di venir su dai polmoni annodandosi alla gola, come se volesse fermare delle eventuali parole inopportune. Infine è la nausea, simbolo di malessere diffuso.

Ad ognuno le sue responsabilità e ad ognuno il suo dolore. Il dispiacere di un altro non vale, a volte semplicemente non si può essere capiti, tantomeno perdonati da chi è giunto a disdegnarci. Eppure cerco ancora conforto ed ancora mi dispero. Sento l’amara sensazione di aver agito contro un alleato, in questa guerra troppo caotica per poterci capir qualcosa. E, nel fumo delle armature e degli zoccoli dei cavalli, vedo questa figura a terra, con un dolore stampato sul volto, che soleva esser mio.
Non avrei mai voluto liberarmene in questo modo, purtroppo l’unica altra soluzione era la ritirata, ma anche io, come un soldato, conosco la meta e, per quanto cerchi di non sferrare colpi non necessari, ho lasciato che le circostanze mi portassero a sferrare il più grande, verso qualcuno di così degno e vicino.

Credimi, ho avuto colpa, non dolo, anche se con il trascorrere del tempo la prima si sfuma nel secondo. Adesso la condanna più grande è quella di non poter porre rimedio, ma di esser, al contrario, creduta nemica in una guerra ormai conclusa. Con il male nel cuore si prosegue, consci del fatto che la vita tolta in campo non può giustificare la distruzione della pace appena conquistata. Ma il sangue rimane sulle mani, come su quelle di ogni “buon” soldato che, apparentemente, ha fatto il suo dovere.
C’erano forse altre strade, o, al tempo, altre soluzioni, ma non sempre si può calcolare il rischio, ci sono rischi che vanno corsi, teste che vanno tagliate e battaglie che non possono essere perse.

Tutto questo nell’immensa, ingiusta, incoerente, imprevedibile e spietata long long road to happiness, to my happiness. In fondo, nessuno ha mai ciò che merita.

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