martedì 30 marzo 2021

Faccia a faccia con il nemico

 


Strada Provinciale 24, Isola d'Elba, 115km/h. L'Enterprise è in modalità Sport, con il cambio in Sport, ad azionamento manuale. Con le sospensioni tarate al massimo della rigidità, entra in curva pennellando, ed esce più forte dalle pieghe strette in salita verso il bivio de La Biodola. Entra in curva, nelle mie mani esperte, come se fosse una macchina di un metro più corta, e sfodera una rabbia inusitata in uscita.
Per essere un 2000 biturbo da 215cv va bene, molto bene.
Se esageri, fa come tutte le trazioni posteriori moderne, ovvero scoda pesantemente, e i controlli intervengono raddrizzandola.
Con le trazioni posteriori d'epoca non se ne parlerebbe nemmeno di esagerare in questo modo. Una Giulia, un Duetto, una BMW, ti disarcionerebbero e tu, povero pilota inerme, ti troveresti senza sapere come hai fatto in un fosso/campo/muro e qualuqnue altra pertinenza vicina alla strada.
E sì, sto esagerando e ne sono contento. Ergo, scoda e riprende la sua via, anche a causa delle gomme termiche, inutile acquisto, ma io controsterzo, sono bravo e so come fare. La raddrizzo prima dell'intrevento dei controlli.
In uscita dalla terza curva, al primo colpo che l'ESP assesta alle mie velleità sportive, faccio l'ulteriore favata di quella mattina: disattivo i controlli elettronici, e il cockpit si popola di spie gialle e avvisi vari, in particolare quello che mi ricorda, a lettere cubitali: "STABILIZZAZIONE DI MARCIA LIMITATA".
Mi domando, col sorriso soddisfattissimo da ebete che campeggia nella mia faccia da qualche minuto, sostenuto da "Poison" degli Alice Cooper, se avessi bisogno di una stabilizzazione della marcia nella mia vita.
Oh, sì, ne avrei bisogno, e l'avrei trovata con grandissima facilità.
Ma la voglio? Voglio la strada dritta, facile, veloce, bella? La risposta la so benissimo.
La conosco ancora meglio, quando l'Enterprise, con tutte le centraline "addormentate", scoda di brutto, torce in uscita sotto il mio esagerato piede destro e delega alle gomme termiche, già abituate a lavorare a temperature a loro non congeniali, il compito di tenere in strada questo ammasso di alluminio, pelli pregiate, e plastica.
Come avrebbe detto mio padre, vengo su "a randello".
Rettilineo, respiro lungo, rimetto tutti i controlli, sposto tutto lo spostabile in "Comfort". Ritorno in me.
Il fatto è che dieci minuti prima avevo tirato il più grosso schiaffo morale della mia vita a una persona. Con la più grossa soddisfazione annessa.
"Non si entra mai nelle case a mani vuote", diceva mamma quando ero piccino.
La donna della mia vita non si è palesata nemmeno per ridarmi le chiavi di casa. Me le ha riconsegnate la madre, che mi ritiene il nemico numero 1. Lo si percepisce dalla faccia, dal tono della voce, dagli atteggiamenti.
Sì, la mente è strana.
E allora, vado a ritirare le chiavi di casa mia da tempo latitanti, peraltro con il portachiavi della mia prima società.
Chiamo, e la consegna avviene a mezzo terzi.
Avviene che la mamma, mio acerrimo nemico, artefice del nostro destino, mi aspetta sul cancello.
Venti minuti prima, mentre percorrevo a bordo dell'Enterprise, mia fida compagna di viaggio, la stradina di uscita da casa, mi si era accesa una lampadina come nei fumetti.
Il tocco sul tasto del comando vocale ne è diretta conseguenza: "Buongiorno, avrei bisogno di un mazzo di fiori tra 20 minuti".
Pazza l'idea, pensavo mentre "Armageddon it" dei Def Leppard rimobombava nelle casse della sempre ligia Enterprise.
I 200m che separano il fioraio da casa della donna della mia vita sono il pregustarsi della scena che sto per tirare su, come un grande attore.
Scendo: scarpe Hogan nuove, jeans che non avevo mai messo in anni, trench blu di Aspesi, camicia bianca e occhiali RayBan a goccia che sono il marchio di fabbrica della mia persona da anni.
Vedo lo sguardo impietrito da 50m di distanza, mentre cammino verso il cancello. Nessuno mi farà entrare oggi, ma va bene così.
Il cane mi riconosce e mi fa mille feste. Lo adoro, lui mi adora, ed è l'unico di quella famiglia che attualmente lo fa. Era ovvio.
Mi vengono consegnate le chiavi e io pronuncio la frase più tagliente che avessi mai potuto dire in quasi 40 anni di vita: "Questi fiori sono per te".
Nei 4 secondi successivi, il silenzio di chi osserva l'altro, come se avesse assestato il colpo finale di un incontro di boxe. Sì, tu mi odi, e io ti regalo i fiori.
Sì, tu sei il diavolo per me, e io ti affronto con la gentilezza che mi contraddistingue.
Ringrazio e torno indietro.
L'Enterprise riprende vita senza fare tanto rumore, con il suo solito fare teutonico.
Sono io che ancora non ho ripreso vita, e che dovrei fare il possibile per fare ordine nella mia vita, e nonostante i propositi butto sempre troppa carne al fuoco.
Dovrei fare tabula rasa di tutto.
Virginia, che con i suoi occhioni stupendi tempo fa era accanto a me in questi luoghi, seduta sull'Enterprise, mi avrebbe dato lo stimolo per farlo anche senza dirmi niente.
Solo che non c'è e ha preso la sua via, avendo piena ragione.
Che strano questo 2021, iniziato bene, proseguito sempre in maniera eroica, lasciando tutti all'oscuro di tutto quello che ho dentro, del vortice della mia ansia che mi risucchia fortissimo.
Vorrei tante belle novità. In primis un viaggio di ritorno. E ne resto in attesa.

mercoledì 24 marzo 2021

Fame d’aria

 

Strada Statale 68, 120km/h, notte fonda, quasi mattina. Le luci dei lampeggianti blu scandiscono il ritmo di una cavalcata che, se non fosse per il rumore assordante e ripetitivo della sirena, avrebbe un che di trionfale e, al limite, pure di romantico, di quelle missioni eroiche in cui si andava veramente bene e forte con mezzi di cui, oggigiorno, riderei per la loro assenza di caratteristiche tecniche.
Era un bel periodo, quando le Missioni eroiche andavano bene. Ah, che sbadato, ma io con quelle missioni ho chiuso, penso quando il pilota entra, in modo pressoché perfetto, nella curva a "S" che immette, dopo il ponte su un leggero rettilineo.

Sono legato con una cintura a sei punti di attacco ad un bel sedile avvolgente, e non mi capitava da 18 anni di avere ancora la sensazione delle cinture così.  Chi mi conosce avrà pensato che io fossi su una Lancia Stratos, su una Delta Integrale, o su una 124 Abarth, o su una Porsche 911 in versione pista.
Se non fossimo in avvicinamento all’ospedale, a bordo di un Fiat Ducato, 3000 turbodiesel, 180cv e 2 tonnellate di attrezzature sanitarie, di proprietà della Misericordia, questa corsa avrebbe anche questo un che di romantico e di rallystico. Sorrido, da passeggero di questo mezzo che, in teoria, andrebbe più piano di tutto quello che ho guidato. Il Ducato, oggetto tendenzialmente lento per natura, si avvicina all’Ospedale vicino a casa andando più veloce della totalità dei mezzi  Scendo, fortunatamente sulle mie gambe.

Tre ore prima mi ero svegliato di colpo, con un pensiero ed una immagine corrispondente che non riuscivo a togliermi dalla testa. Il mio passato che si abbraccia col suo futuro mi ha tolto il fiato. Ho cercato in tutti i modi di contrastare con il mio raziocinio (ribadendo a me stesso il fatto di non essermi peritato a dedicarmi ad ogni possibile ed immaginabile forma di rapporto personale e carnale con esseri femminili di una certa bellezza, nelle immediatezze dell’abbandono e di continuare a farlo sinora). Niente. Non serve. 

Il fiato si allunga, il respiro diventa frequente. NO. La sensazione di morte imminente arriva.
Ma non posso morire. Giro per casa, mi faccio una tisana. Ho paura. Tanta paura. Il cervello accelera. Il pensiero va alle polizze vita che ho, sono tante, e due erroneamente intestate rispettivamente alla mia ex moglie e alla mia ultima ex fidanzata dell’Isola d’Elba.
Con tutto il rispetto, non avrei avuto voglia che loro avessero goduto di questa mia morte.
Mi prendo anche una mezza risciacquata sul fatto che sono vaccinato dal Covid, e che come legale faccio parte di una lobby bla bla bla. Sono voci confuse.

Mentre vedo con chiarezza la mano dell'autista ballare in quarta-quinta-sesta, la stretta si fa più forte.Mi sento morire.
Mi passa davanti tutta la mia vita. Io che salgo le scale dell'asilo con Nonno Gigi. Il sole disegnato nel 1984. La Rover blu, la bretella Lucca-Viareggio. Io seduto nel cestino della bicicletta di nonna. La scuola di Sant'Andrea. Elia e Lauretta. Alice e Susanna. Filippo.
Non ero capace di giocare a pallone, ma era solo per l'ansia che era in me, l'ho scoperto ora. Le recite, la freccia Azzurra, il cane Spicciola.
La prima volta all'Elba, la nave era Oglasa e c'è ancora, due livree dopo.
La casa.
Il motorino giallo, il mio nonno a Poggibonsi. Gli occhi di serpente. Il Liceo, dove nascono le amicizie vere, con Giacomo e gli altri.
Le corse per andare in piscina a Novoli. Il bagno Lacona, le 4 estate più belle, abbronzato sul Ciao Rosso. Il bacio con Michela a Marina di Campo.
Il sesso sciatto da diciassettenni. Il sonno sulla spiaggia. Vania. Il pullman per Milano, che ondeggiava forte per il vecchio tratto appenninico. Sara.
Giulia, con cui cantavamo, amica assoluta e duratura. Se non fosse stato amore, adesso lo è e lo sarà per sempre a modo nostro.
La Punto Cabrio arancione. Il senso di tutto. L'ansia. Tanta ansia.
L'università e le storie inutili. Sara. Le ansie. Fabrizia e le ansie a lunga percorrenza.
Gaia, e la prima forte paura di perderla, infondata.
Ancora Giulia e la (sua) Punto a Metano.
Le prime Missioni Eroiche, tutte a buon fine. Il messaggio ricevuto sul divano: "Io ti amo, ne sono certa".
Il borbottio della Mito al minimo, che mi rimase impresso sotto la pioggia battente, con l'ingresso trionfale sul  viale.
Gli interrogativi: "e ora che me la sono ripresa?".
Francesca e la magica serata a Ferrara. Francesca e le litigate per colpa mia. Era vero amore, ma la fava sono sempre io.
Il messaggio "vieni a Ferrara" quattro mesi dopo tutto.

Gli interrogativi: "e ora che me la sono ripresa?".
Gli incolori 7 anni e mezzo accanto a Elena. Lo studio piccolo, lo studio grande. La stazione. Giulia la Collega di studio indispensabile e buona.
La nave quel giorno di settembre. Occhi negli occhi e le cose represse.
Il bacio proibito in un parcheggio. Le ansie, i pianti e gli stridori di denti.
I capelli lunghi e biondi. La fine ingloriosa dopo un anno in cui ci avevo creduto.
La sparizione. I clienti che non tollero. La causa di tutti questi mali, e la soluzione agli stessi.
Virginia, e le mani intrecciate ora lontane che mi davano così tanta sicurezza. Mi mancherà più lei di tutto questo. Valeria e il suo esserci nonostante tutto. I suoi occhi stupendi.
Cosa lascio? Cosa lascerei? Niente, solo incazzature e gente a piangere per niente.

Telefono a chi mi sopporta, con grande amore ora. Sono le 3 di notte, lo so. Non mi merito tutto questo.
Ma non è chi vorrei accanto qua, nell'ospedale vicino casa. Vorrei l'intreccio delle mani, vorrei essere tranquillizzato. Vorrei essere messo da una parte e sentir dire "Ci sono qua io" a qualcuno che non è colei che con grande impegno ed amore.
Non posso averla, non posso nemmeno avere un rapporto civile che mi piacerebbe coltivare per il gusto di dire a me stesso. Ecco cosa mi fa soffocare.
Rivorrei le sicurezze: rivorrei Virginia, Giulia per ricominciare, rivorrei la spensieratezza della mia macchina arancione.
Vorrei lo sguardo di Giulia, la mia amica di sempre, con cui ci supportiamo a vicenda, parlando di musica e cazzate varie.
Vorrei ancora quelle chiamate salaci in cui insultavamo tutti.
Vorrei quello che non posso avere.
Non vivo. Mi fa soffocare tutto.

sabato 20 marzo 2021

Il tramonto incolore

Da qualche parte; o in nessun luogo in particolare.

Il chiarore si estingue, le tenebre prendono lentamente possesso del cielo e di quanto sta al di sotto di esso; e con il sole vanno via i colori.

Che non è che non siano più lì, solo che gli occhi non riescono più a percepirli; tutto diventa a toni di grigio, con poche luci colorate in lontananza a ricordare che forse non tutto è perduto. Ma all'apparenza sono troppo lontane, non sembra esserci alcuna speranza di raggiungerle.

Non c'è nessuno attorno a me in questa fresca serata, almeno metaforicamente (metaforicamente fresca o metaforicamente nessuno, a scelta). E con tutte le persone che ho lentamente allontanato da me, ci credo che non ci sia nessuno.

Sono solo (o almeno mi sento tale), e non è una sorpresa. Ho lentamente smesso di rispondere; ho lentamente smesso di cercare. Ed ora mi trovo solo, con una maschera che metto e tolgo ogni giorno e che pesa sempre più; pochi hanno avuto la possibilità di vedere oltre la maschera in una manciata di occasioni, ma poi l'ho subito indossata di nuovo, fingendo giorno dopo giorno che tutto vada bene, così che anche quelle poche persone che hanno visto la maschera non facciano più domande.

Dietro la maschera c'è un essere umano che fatica ogni giorno a trovare il modo di arrivare a fine giornata; ci sono pianti nascosti nei momenti più disparati, spesso la mattina o la sera andando e tornando da lavoro, negli unici momenti in cui ho qualche minuto per confrontarmi con me stesso (e cronicamente vedere la miseria emozionale in cui vivo).

Ho speso così tanto tempo a cercare metafore e modi di parafrasare che forse li ho finiti; e avendoli finiti non ho più modo di raccontare la mia vita, visto che ad usare modi diretti non ci sono mai riuscito. Così ho iniziato ad isolarmi; a concentrarmi sull'unico grande problema che non riesco a risolvere (e che apparentemente da solo diventa ancora più grande da risolvere), senza riuscirci.

Così ogni giorno è semplicemente un passare del tempo, senza più alcun piacere, senza più alcun obiettivo, senza più sorrisi veri ma solo di facciata.

E brutti pensieri.

Spesso, troppo spesso; come soluzione a tutto; come soluzione finale all'aspettare perennemente ad un'alba ed un chiarore che sembrano non arrivare mai. Soluzione al groppo in gola che sento da mattina a sera; all'ansia; ai sensi di colpa.

Eppure resta un filo di speranza, che mi tiene vivo anche di notte, che mi dice che forse un giorno l'alba arriverà e che magari domani, o la prossima settimana, sarà meglio, nonostante tutto dentro di te continui a dirti che nulla andrà meglio.

Ed ora come ora, l'unica speranza è che quel filo non si spezzi.

lunedì 1 marzo 2021

Per un altro minuto ancora

 


 Granducato De Le Grazie, cancello carraio di casa, retromarcia inserita. L'Enterprise è muta, come sempre.
Nella calda giornata del primo giorno di marzo del secondo anno pandemico, arrivo a casa, tirando il fiato. Lo tiro di nuovo. Respiro ancora.
E' troppo caldo, con punte di 22 gradi nel mezzo del giorno, un tempo inadattissimo alle gomme termiche Yokohama che monto sulla mia nave ammiraglia e compagna di tante curve e rettilinei.
Pensai che quest'anno non avrei dovuto cambiarle, tanto non servono a nulla.
L'Enterprise da venerdì ha una ferita sul paraurti posteriore lato guida, dovuta ad una signora che, per controllare la propria Ford Fusion del 2006, ha dovuto appoggiarcisi sopra violentemente. Poco importa, adesso. L'assicurazione pagherà. Non mi sono nemmeno arrabbiato, stranamente.
Nella Via nova, tornando a casa ho guidato forte, veramente forte, esattamente come nel giorno in cui tornai pilota l'anno scorso, a metà febbraio, quando tornavo da Livorno.
In quell'occasione il motivo della guida perfetta era ben diverso: ero all'inizio di un percorso in cui credevo di essere invincibile, carico di speranze e da cui, quasi un anno più tardi, sono uscito bastonato, con mille punti interrogativi, un grappolo di belle foto da conservare e una serie di ricordi impressi a fuoco nell'anima in maniera indelebile.
E' passato un anno, cavolo, eppure sono ancora lì a bussare e a pugnalarmi.
C'era un punto fermo dal 24 novembre, da queste parti. Era un punto più fermo di quanto io potessi pensare,  o per lo meno mi ero deciso a farla diventare qualcosa di simile.
Guardo nello specchietto, e ripenso a quello che Virginia mi ha detto prima di pranzo.
Ho sfoggiato un aplomb che tempo fa non avrei mai tirato fuori. Quando si muore dentro per un attimo si cerca di sorridere e dire "Non mi avrai".
Ma con te non ho mai litigato, con te eravamo al limite della vicinanza, dell'attrazione come due poli uguali della calamita che si avvicinano quando sono lontani ma che poi si respingono quando sono troppo vicini per toccarsi.
E allora, giustamente, fai bene a prendere la tua via, a seguire le tue attitudini. Devi farlo, e sarò sempre con te.
Fai bene a cercare di seguire quello per cui hai studiato.
Pensavo di non rivestirmi più del mio vecchio "sorriso di facciata". Era tanto che non lo facevo, ma oggi mi sono visto costretto a farlo ancora, più volte.
E sai perché? Perché abbiamo diviso tutto e ci siamo dati tutto. Ci siamo letti gli oroscopi, capiti alla prima. Abbiamo semplicemente vissuto.
La vuota Enterprise continua ad andare veloce verso la sua meta, la casa.
Le mancherai, mancherai a me. Mancherai alle mie mani. Mancherai alle mie braccia che ti hanno stretto quando avevi bisogno.
Mancherai, punto, qualunque cose ne dicano gli altri, che non sanno niente.
E allora, cari miei vicini, colleghi, collaboratori, concedetemi di piangere in terrazza per un motivo che so solo io, anzi, che sappiamo solo io e Virginia.
Non c'è niente di strano, ma voglio piangere in terrazza, lontano dai vostri sguardi che giudicano tutto quanto si muove intorno a me.
Voglio piangere, poi torno in me.
Concedetemelo, per un altro minuto ancora.




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