mercoledì 4 maggio 2022

Com'è giusto che sia. O forse no.

 



Guardo fuori dalle finestre della Stazione; il cielo è grigio, da che abbiamo parlato, con toni tranquilli,  seduti nella mia macchina, quel giorno, stranamente, con la vernice sporca come poche volte è stata per le recenti piogge. Ho tenuto botta, ed ho parlato per precisare un piccolo aspetto su come pensavo fossero andate le cose, e su come mai la persona che mi ha dato le emozioni più forti di tutta la mia vita, e che credo di aver amato più di qualsiasi altra al mondo, stava rinunciando a questo amore, a testimonianza del fatto che non conta il "quanto" ma il "come". Tuttavia, alle volte è inutile insistere quando ormai la battaglia è persa e quando sai che niente cambierà, anche se una storia ti dà tanti momenti belli. Infatti è stato un bel viaggio, senza dubbio.
Non ho mai avuto così tanto autocontrollo nella vita, apprezzando la mia metamorfosi, come se fossi stato un osservatore esterno di come mi sono comportato in questi mesi. E' una magra consolazione, in questo caso, ma è indice di un soddisfacente lavoro della mia psicologa.
Mi sono soltanto soffermato, in un attimo che sembrava infinito, a guardare i contorni rotondi del tuo viso angelico avvolto dai tuoi bellissimi capelli biondi, un po' come a fotografarne mentalmente, per l'ultma volta, l'aspetto, e custodire quell'immagine dentro di me per sempre. Tanto avevamo già parlato al telefono e il destino era segnato.
Morivo dentro, nonostante il grande autocontrollo che nel 2020 non avrei mai avuto, ma questa è un'altra storia, di cui non voglio far partecipe nessuno. I conti con me stesso li ho sempre pagati e in modo salato e non è più una cosa di tua competenza soffrire con me.
E' vero, me lo dicevi sempre che mi tenevo dentro le cose, pur di averti accanto. E' stato così, per davvero. E ho sbagliato.
Non posso dire di non essere stato avvertito del fatto di essere stato soltanto un "intrattenimento", e di non poter ricevere niente più di parole dolci, serate magiche, e cose intime irripetibili.
Col tempo mi sono accorto di essere la "terapia" di una coppia che, grazie a me, probabilmente ha ritrovato la felicità. E allora è il caso di tagliare i ponti, dando la parvenza che questo sentimento forte che ci lega, e forse ci legherà sempre, non esista.
Com'è giusto che sia. O forse no.
Mi è stato ripetuto di non sperare in una evoluzione del rapporto, mi è stato detto fino alla nausea, e ho sempre detto "lo so", ostentando una sicurezza non comune, pari a quella con cui guido i miei animati mezzi a motore.
Probabilmente non ho mai avuto una consapevolezza di quello che sono, nella vita, come adesso. Anche quando, tutti e due, oltrepassavamo i paletti che ci eravamo imposti.
E' evidente che non posso accusare nessuno di mancanza di chiarezza. A questo punto, come ho sempre storicamente, e forse in modo erroneo fatto, mi assumo le responsabilità di tutto, per il fatto che mi tuffo nelle cose per intero e che combatto battaglie pur sapendole perse in partenza. Le perdo a testa altissima, uscendo tra gli applausi scroscianti, ma il risultato finale comunque non cambia. Magari mi racconto anche che le "sconfitte a testa alta" sono migliori di certe vittorie, e "in corso d'opera" ci si diverte anche di più. Ne è valsa la pena di fare questo viaggio "al buio". Ne è valsa la pena, sempre e comunque.
Stavolta, però, non potevo permettermi di farmi male come tutte le altre volte.
"Questa battaglia non la vinci", diceva Sandra, al corrente di tutto. E infatti l'ho persa, sul campo, dopo un lunghissimo testa a testa, nonostante fossi conscio che al 99% sarebbe finita così, anche se dentro di noi sappiamo che il finale avrebbe potuto essere ben diverso. Ho voluto lottare comunque. Bravo, Andrea. Sempre il solito eroe de noantri che sbatte contro il muro e si fa male. Però è stato un bel viaggio, lo ripeto, e ne è valsa la pena.
E a proposito di viaggi, devo partire, tra poco, per lavoro, per una destinazione conosciuta: Livorno.
E insomma, il cielo è di quel grigio argenteo sottile in cui io, passante distratto, quasi rivedo la mia immagine riflessa, quel grigio che mi rispecchia, che rispecchia il mio umore, che mi copre e mi protegge da un cielo azzurro nascosto; troppo vasto, troppo puro, al quale ancora non posso arrivare, al quale forse, anche da pilota abituato a stare a terra, non arriverò mai.
Sono semplicemente lì, immobile, incantato, in una stupida posizione eroica e solenne con il braccio disteso davanti alla finestra ed il dito in alto a puntare non si sa quale stella invisibile a causa delle nuvole, una ben precisa stella sospesa tra tante altre. Una stella che per te, nelle cronache ufficiali della tua vita, non c'è mai stata, e da oggi ufficialmente non splende più per te, ma per me splende più forte che mai. E forse splende anche per te, che non ti sei mai raccontata la verità.
Forse per te sono stato una stella impropriamente detta “qualsiasi” in un universo qualunque, perché  ben poco importano le determinazioni, i nomi, gli epiteti, quando vedi lo splendore e l’incanto di qualcosa di straordinariamente comune, che eravamo noi.
Così  sono rimasto io, da quando abbiamo deciso di non farci più male, fermo a puntare il cielo coperto dalle nubi protettrici, cariche di pianto stellare, cariche di accumuli gassosi che come pensieri si spostano: passano, ritornano, si smontano, rinascono, simili ma sempre diverse. 
Le intravedo alzando gli occhi al tetto panoramico dell'Enterprise, mentre nel silenzio assoluto percorro la strada per andare a Livorno.
Le nuvole, come le strade, sono tutte apparentemente uguali, perché nessuno vede cosa succede dentro ad una nuvola, né cosa c'è sotto l'asfalto. Così come nessuno sarà in grado di vedere quello che succede dentro di me, rivestito di un abito scuro e di un sorriso che denota spigliatezza, ma straziato e dilaniato per averti perso in nome di quello che era "giusto" che tu facessi per tutti quelli che ti circondano, e non per te stessa, ovvero rimanere dove sei da tempo. Ovvero, hai deciso di non decidere. E da decisionista, ho preso in mano la situazione per non farmi male.
La decisione è giusta, per tutti gli altri, tranne che per me, e ne pago le conseguenze. La paura (non mia) ha vinto sull'amore. La strada facile ha vinto sulle curve.
Appunto, è stato giusto così, è il mantra da ripetere ogni secondo, ad uso e consumo della mia realtà attuale. E' stato giusto così. E' stato giusto così. Lo scriverò 100 volte sulla lavagna del mio cervello, come i bambini indisciplinati quando devono forzarsi a capire qualcosa.
Ma ti amo, e fa male. Questo amore mi tronca il respiro, e mi fa venire un magone bestiale, ora che non ci sei perché ho preso in mano la situazione ed avevo capito che comunque questo epilogo era inevitabile.
Non ho avuto dubbi fin dall'inizio, sin dai tempi delle notti insonni magiche: era ed è ancora, amore vero. Mi slancio ulteriormente, come chi non ha più niente da perdere: lo era da entrambe le parti. E forse lo è ancora.
Avevamo delineato un perimetro, che abbiamo ripetutamente invaso,  perché non c'è niente da fare: ce lo diciamo mille volte, o forse milioni. L'Amore, quello con la "A" maiuscola, quello che ti dichiaravo velatamente e che tu, per paura di quel castello di cose da fare e di persone da affrontare per dire a tutti che le tue emozioni erano lì, non mi dicevi mai di provare (salvo una sera ben precisa), non lo puoi contenere con dei paletti e con dei "recinti" autoimposti.
Ma hanno vinto le convinzioni e le paure di deludere gli altri, e forse gli investimenti fatti in passato, che oggi sono ritenuti imprescindibili.
Eppure, i titoli che perdevano li ho sempre venduti e ne ho ricomprati altri migliori. Ho forse errato nello sperare che potessi farlo anche tu.
Ha vinto l'inerzia che ne consegue, quando mi sarei aspettato un passo da mesi. Se la ragione è dei coglioni, a questo giro, da quanta ragione (inutile) ho, sono un idiota ad honorem.
Ma ti amo tantissimo, porca miseria. E tu semplicemente non mi ami abbastanza, forse.
Il sentimento esiste e resiste nonostante tutto, si insinua ovunque e fa di tutti i propositi e dei paletti un fagotto e li butta via. In effetti, tu lo vivevi senza dirmi nulla nelle sere passate sul mio divano, ma si vedeva che i tuoi occhi si vestivano di un sorriso spontaneo,  per poi rimetter loro la maschera consueta e tornare a casa. 
Questo è, o è stato, un amore forte, vero,  impossibile, che abbiamo reso, nonostante tutto e tutti, possibile. E che ora ha, giustamente, visto la bandiera a scacchi, com'è giusto che sia. O forse no.
La mia giornata è triste, come questo cielo.
Ho la consapevolezza di avere perso, ho la consapevolezza di non essere stato capace di strapparti da quel "castello" di rapporti, di paure, che ti portavi dietro, e di farti capire che non si cresce insieme solo partendo da giovani, ma anche quando si è adulti lo si fa ancora. E avrei voluto che lo facessi accanto a me, per un tratto lunghissimo di vita.
Saperti felice lontana da me è al tempo stesso una consolazione ed uno strazio. Vorrei essere io a renderti felice, vorrei poterlo fare davvero, senza pensieri, senza rancori. Eppure questa ferita che forse autoinflitta che porto in corpo si comporta come una palla al piede o come un bambino capriccioso che trattiene la mamma frettolosa in procinto di andare a fare la spesa.
Vedo solo l’apparenza, l’apparenza che ti fa stare bene via lontano da me, quando esci e fai la tua vita, che non è la mia, lontana dalla mia, nonostante la poca distanza fisica. E tutte quelle cose che avrei voluto fare cadono in un vortice di tristezza, come una morte consapevole a cui ci si abbandona quando non si hanno più speranze, quando la nave su cui contavamo di attraversare l'Oceano sta affondando davanti ai nostri occhi e tutte le scialuppe sono occupate.
Già, perché avrei voluto farne di cose con te. Avrei voluto svegliarmi accanto a te e darti il caffè nelle tazze di Starbucks che avevo preso in vari posti dove sono stato. Avrei voluto farne di viaggi con te, e svegliarsi abbracciati come sapevamo fare di nascosto. Avrei voluto portarti all'Elba, nel mio mondo estivo e invernale, per farti vedere tantissime cose che non hai ancora visto.
Avrei voluto scappare a Parigi un fine settimana così, caricando i vestiti in valigia all'ultimo minuto con i biglietti dell'aereo appena stampati.
Avrei voluto farti capire che per me eri e sei importante, e che forse la nostra vita accanto sarebbe stata bella, divertente, felice e piena di risate, ma soprattutto a colori, contrastante con il bianco e nero di tante coppie che si basano solo sull'apparenza.
Avrei voluto schierarmi con te in qualche gara di regolarità storica, e battibeccare per i settori cronometrati sbagliati.
Avrei voluto imparare da te, dal nostro ridere, confrontarsi e  viverci a pieno e non solo in questo modo.
Avrei voluto fare tante foto, con me e te sorridenti, realmente felici.
Avrei voluto farti capire che si cresce anche quando si hanno 40 anni, figuriamoci alla tua età, e avrei voluto farti crescere e crescere accanto a me.
Avrei voluto essere felice senza filtri, senza dover fingere con nessuno, e senza raccontarmi nessun'altra cavolata, in pace con me stesso e con il mondo, finalmente. E lo ero, in quelle sere incantate, quasi consapevole che avremmo potuto mettere un punto a tutte le nostre sofferenze precedenti.
E invece non ho questo privilegio. Come, forse, a questo mondo non ho né avrò mai il privilegio di essere felice.
Forse sono condannato all'abbandono e all'inquietudine di colui che, detto alla Colligiana, "non ha fermezza", ma per una volta ci avevo creduto ad andare contro i pronostici. Dentro di me sapevo che mi sbagliavo, ma ho voluto autoilludermi.
L'Enterprise affronta una cunetta a 120km/h: il muso affonda mentre trattengo il fiato e riemerge poco dopo a velocità costante. Ne esco accelerando, mentre riallineo con le mie mani esperte in troppi campi il posteriore della mia vettura "a coda lunga", come per tentare di fuggire da questi pensieri che, nonostante l'alta velocità, ci raggiungono in modo inesorabile, spiazzando lei, ma non me.
E tu lo sapevi che noi potevamo darci tanto reciprocamente, o forse addirittura tutto, per sempre.
Allora mi assuefaccio e non oppongo resistenza al ricordo di noi, che siamo stati più coppia di tante altre coppie ufficiali, prima di terminare questo silenzioso e infinito viaggio a Livorno.
Lo scrissi 11 anni fa: Le strade degli innamorati sono lunghe e strette, e non si arriva mai. Quando un amore finisce le stesse strade diventano larghe e piatte, e non si arriva mai lo stesso.
La morale sarebbe che non si arriva mai.
E invece sono arrivato. Lungomare di Livorno, terrazza Mascagni.
Ho paura di non riuscire più a credere in niente, perché in fondo è questo che sono oggi: una persona che non sa più credere, che non crede nemmeno in quello in cui vorrebbe credere, nemmeno quando quella scommessa vale tutta la sua vita. E un fiorellino si stacca dagli alberi color rosa antico del lungomare, in questa primavera arrivata in questo modo così dirompente.
Da lontano, da dentro l'Enterprise, lo guardo e sono conscio di aver sperato di non fare la sua fine, di non appassire, di non piegarmi a questo vento, di rimanere attaccato al ramo che siamo o eravamo noi, di essere sempre più forti e di poter splendere in un bel giorno di primavera sotto un cielo azzurro ed un sole caldo e che così possa essere finché il tempo sarà con noi e continuerà a scorrere, per tutte le stagioni di tutti gli anni che ci saranno. Non ho voglia nemmeno di telefonare ad un amico per dirglielo, ora che non rovescio più tante lacrime, a causa del mio autocontrollo eccessivo.
Del nostro amore bello, totalizzante, segreto, sincero, vero, puro, tenero, pulito, complice e adesso straziante non mi resta nemmeno una foto, perché sono pericolose, mi dicevi. Era uno dei famigerati paletti a cui ho ottemperato senza discutere, anche se avrei voluto farlo.
Ho il diritto di essere arrabbiato. E non con Te, ma con me stesso, per essermi ancora una volta illuso, e illuso per bene.
Ho forse il diritto di essere arrabbiato con me stesso per non aver parlato chiaro quando dovevo, perché tu andavi a "compartimenti stagni" quando c'era il titolare, sparendo per la tua solita paura di perdere tutto.
Mi resta una playlist che nella mia BMW ho chiamato "ClandestinaMente", con tutte le canzoni (parecchie, onestamente, indigeribili per me, quarantenne ex rocchettaro) che in un grigio pomeriggio di febbraio mi mandasti, e la convinzione stupida che il tuo cuore sia stato e sia ancora mio, che avresti la tentazione di correre da me, sotto la mia stazione o sotto la mia casa, a dirmi che sei mia, solo mia e che è il nostro momento. Ah, resta anche un carico di fitte allo stomaco, di lacrime ingoiate nei momenti più impensabili della giornata, di fiato trattenuto in discesa mentre guido fin quasi a soffocare. Mi resta una indelebile sequela di ricordi belli, di baci rubati e di sguardi che non tradiscono mai quello che c'è dietro. Tutti troppo belli per essere, ufficialmente, veri.
Forse in te svanirò, rimpiazzato dalle corse quotidiane, replaced by everyday, come cantano i R.E.M.
Come vorrei un tuo messaggio, qualcosa che mi faccia capire che non mi sono sbagliato. Adesso che ho accettato la sconfitta nella realtà dei fatti, vorrei la magra consolazione della "vittoria nei sentimenti".
Come vorrei avere la conferma che tutto questo vale anche per te.
Per ogni addio, e questo è avvenuto nella vita tutte le volte, viene fuori, spontaneamente, una canzone che si pianta lì in loop e me lo ricorda. E infatti, nell'autoradio si chiude la canzone "Invincible" di Pat Benatar.  A te magari non dice nulla, ma per me è un pezzo rock degli anni '80, con il classico finale in crescendo di quegli anni, che oggi appare eccessivamente corposo e ridondante come un po' tutto il rock dell'epoca. Ma ben si abbina a noi, che a tratti credevamo di essere invincibili e che invece ci siamo disciolti come neve al sole. Com'è giusto che sia. O forse no.
We can't afford to be innocent, stand up and face the enemy
It's a do or die situation, we will be invincible

Tutto facile, in teoria. L'hai fatta facile: ci si smette di vedere e ci si scorda di tutto quello che è stato il nostro amore. Non lo è, perché al cor non si comanda.
Ma ti amo, maremmasconsolatadelpolesine, e in questo casino mi ci sono infilato io. E sto male, peggio di quanto sia stato in  quaranta lunghi anni di cazzate, nonostante all'apparenza sia tutto il contrario, nonostante sia una persona dotata, adesso, dal 2021 in poi, di un autocontrollo da record.
Adesso è il momento di scendere di macchina. E non ho tempo di lamentarmi ancora, perché ho aspettative troppo alte da me stesso.
Fitta allo stomaco, respiro troncato, magone. L'autocontrollo chiede il conto, e lo pago volentieri.  E' stata una scelta difficile, ne sono certo. Gestisco questo stato d'animo guardando per un attimo il mare davanti a me. Le mie battaglie recenti le ho vinte imparando a gestire anche quello che non riuscivo a calcolare prima. Non avrebbe dovuto essere così, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare.
Mi alzo in piedi, mi vesto del mio sorriso, e suono il campanello del Collega, con la testa altrove.
Mi rituffo nel mondo, senza di te, che fai la tua bella vita con quell'altro lì accanto da cui non riesci a staccarti. Com'è giusto che sia. O forse no.
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