mercoledì 6 luglio 2011

Persone, Parole, Scuse



Persone. Ne incontriamo tante lungo la nostra strada ed ognuna di loro ha una particolare importanza. Non credo che la loro venuta sia casuale, in questo siamo come radici: tratteniamo unicamente ciò che serve a crescere rigogliosi.
Dicono che ognuna se ne vada dopo aver assolto il proprio compito, altre volte siamo noi a lasciarla andare. Ed io mi domando cosa ho preso da questi numerosi compagni di viaggio. Chi è stato il primo a lasciarmi veramente qualcosa? A chi va il mio ricordo? Quante di loro sono uscite dalla mia vita? Se dovessi riunire tutte le persone che hanno significato qualcosa finirei probabilmente a scrivere un intero libro e non è mia intenzione.
Forse non è nemmeno giusto mettersi a scrivere delle più importanti, come se volessi in qualche modo delegittimare le altre.

Ma non posso fare a meno di pensare. Ho imparato a mie spese che fingere è facile, essere accettati non lo è altrettanto. Ci possiamo circondare di persone, luoghi, cose, affinché quel vuoto che sentiamo dentro, e che appartiene solamente a noi, sia colmato. Ma non essere soli richiede uno sforzo esclusivo. Credo di aver capito che le persone che rimangono sono quelle che ti hanno visto davvero dentro, come credo che per far restare qualcuno si debba riuscire a dare tutti noi stessi ancor prima che l’altro faccia lo stesso.
Parole, solo parole. In realtà sono la regina della solitudine, o almeno così potevo definirmi fino ad un anno fa. Nessuno si avvicini a corte: le guardie sono armate. Così coltivavo quel buco nero di cui ero unica artefice. Man muss noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden Stern gebären zu können (si deve avere in sé il caos per partorire una stella danzante) dice Nietzsche ed è pur vero, ma bisogna saperla condividere affinché il tutto non si risolva in un’implosione visibile solo a noi stessi da una prospettiva che nessuno può avere, da una panchina lasciata vuota o da una prima fila per la quale non esistono biglietti.

Mai cosa fu più difficile. Rendere visibile ciò che sta a fondo, sentirsi percepiti per quel che si è realmente: attrae e spaventa allo stesso tempo. Forse siamo noi ad essere spaventati da quel che siamo, a non apprezzare ogni singola molecola del nostro essere.
Diciamoci la verità: chi è che in fondo si apprezza davvero? Realmente? Pochi. Ipocritamente? Molti. E l’ipocrisia è una grave malattia perché mentre dentro muori una parte di te nasconde i sintomi, si convince di star bene. Alcuni ci riescono per tutta la vita, io non ci sono riuscita, ma mi consolo pensando che la loro felicità non è che una vana illusione, come la tranquillità di chi naviga a vista lungo un mare piatto ignorando le insidie del fondale. La felicità sofferta o, alternativamente, la felicità che fa soffrire: è l’unica felicità che conosco.

In conclusione, non so cosa esattamente i numerosi passeggeri mi abbiano lasciato sul sedile posteriore, probabilmente niente di tangibile: sogni. Ognuno di loro ha attraversato la mia vita spinto da un sogno. Dai più saggi mi è stato detto di sparare più in alto possibile, che l’emozione è labile, di trovare ciò che mi rende felice e continuare a farlo, di parlare alla gente, di pensare al presente, di premiare le persone, che non è mai troppo tardi per far della nostra vita ciò che davvero vogliamo e che ci si può innamorare di tutto (Gaberiano doc).

Ed in tutto questo, mi dispiace solo del male causato. Mi dispiace quando sull’onda di un’innata voglia di trasgressione ti ho lasciato, quando senza dirti niente ho firmato quel contratto e sono sparita lontano.
Eri così bello l’ultima volta che ti ho visto, mentre ti lasciavo ti ho guardato con occhi diversi. E tu che ti eri fatto 30km per venire ad udire la nostra funzione funebre, l’ultimo verso della nostra storia, un verso spudoratamente e vergognosamente bugiardo.
Quel martedì non è mai arrivato: ti ho chiuso fuori dalla mia vita, ma manchi, manchi di un sentimento profondo che non è amore, ma è forte. Scusami per l’illusione di quegli anni, scusami per aver distrutto molti più anni costruiti insieme. Ed ora come un’illusa cerco una tua foto, un tuo messaggio… il niente. Non ho che il ricordo di quei tempi, di te, e l’immagine stampata nella testa di quel giorno finale.
Mi vorrei scusare se solo mi sembrasse opportuno, se solo non riaprisse vecchie ferite. E mi vorrei scusare in particolar modo con un qualcuno, per un qualcosa di estremamente personale, ma che significa tanto: ti auguro di riuscire ad essere molto più felice di quanto non lo sia io adesso.

Mi meraviglio di non aver niente da dire all’unico che se ne è andato. La gente tende ad essere troppo compassionevole con chi non c’è più, eppure io sento di aver rimesso a posto le cose prima che fosse troppo tardi. Con l’inesperienza e l’egocentrismo di una bambina ho rimesso in piedi quel rapporto nato offeso, malfidato.

Ed a Te… quanto avrei detto se dopo così tanto tempo non mi fossi tornato accanto in una singola frazione di secondo che ha ridisegnato la morfologia del consueto stradario che conoscevamo a memoria! A Te… lo dirò strada facendo.

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