martedì 5 luglio 2011

Gli occhi al cielo

Rombo. Forte. Alzo gli occhi al cielo. Rumore d'aereo, un turboelica sicuro. Cerco con lo sguardo dove può essere, con l'infantile curiosità di veder passare quell'affascinante e, dal 1903, innaturale e sempre attraente spettacolo di qualcosa che in sé non può volare ma lo fa lo stesso. Dalla tonalità dei motori deduco sia un ATR 72 o roba simile, ma tutto questo non importa adesso.
Gli occhi al cielo e, per un lunghissimo infinitesimo di blackout nella mia testa, mentre volutamente sento scivolare i RayBan verso destra e li trattengo con la mano.
Cielo. Azzurro. Punteggiato da cirri altissimi, che biancheggiano spazzati dal vento da nord. L'aereo, ora l'ho individuato, va verso nord e il mio udito non mi inganna.
Potrebbe esserci una qualche corrispondenza tra questo cielo, così cosparso di cirri adesso bianchi della mattina che diverranno "di porpora e d'oro" stasera.
Ricordo quando alzai gli occhi al cielo l'ultima volta. Era dicembre, se non ricordo male, sentii il fischio, attraente, di un 737 di Ryanair (riconosciuto dal pancino blu scuro) che atterrava a Ciampino. Erano le 6 di mattina ed era ancora buio. La Mito risplendeva. Aria umidiccia, tipica di quel periodo. Non ricordo in che via o in che posto fossi, di preciso. Ricordo solo una lunga telefonata, mentre ero all'andata. Nemmeno ci feci caso a quell'arnese che atterrava, tanto banale, visto e rivisto.
E non mi soffermai a guardare oltre. Risuonava una musica che non era più la stessa. 140km/h, mi riguadagnavo la via di casa, in un venerdì mattina in cui vedevo il mondo che si svegliava lentamente, i camion che facevano l'A1 con la loro ansiosa tranquillità, tentando anch'essi di raggiungere il loro pressoché impossibile obiettivo.
Un assolo di chitarra rimbombava nelle 12 casse Bose, mi pare fosse qualcosa tipo i Bad Religion, in ogni caso qualcosa di aggeggioso e indigesto alle 7 la mattina, mentre sorpassavo l'ennesimo camion, mentre andavo a 140km/h verso casa.
Confuso, assonnato, menefreghista nei confronti del resto del mondo, cercavo di sporgermi in avanti e guardare il cielo. Che era grigio. Nessun aereo c'era, solo ventole sulla destra, in cima alla montagna sulla destra. Ma il cielo ci aiuta a guardare oltre, a pensare anche ai bivi che dovevamo prendere.
Io dovevo essere a Montreal da 3 anni. Dovevo. Ma non ci andai. Forse mi avrebbe fatto bene: pochi lo sanno.
C'era un periodo in cui non andavo avanti imperterrito per la mia strada e subivo condizionamenti.
Ce n'è stato un altro, recente, in cui ce l'avevo fatta a ritrovare una piccola dimensione di tranquillità, di indipendenza.
La Mito, nel ruolo di ammiraglia a lei non congeniale, si comportava tutto sommato decentemente e senza pretese in quella strana atmosfera quasi antelucana.
Io nel ruolo di assonnato pilota non mi comportavo altrettanto bene.
Cercavo il cielo che mi era stato tolto dopo il "canto del cigno". Prima alzavo la testa e c'era il tetto di vetro, che ti faceva piombare in una illusoria sensazione di vittoria e di piacere. L'illusoria sensazione di essere, per una volta, andato oltre i limiti dell'umana percezione, dove gli altri col tetto di lamiera non potevano andare.
Ora ho una smodata voglia di premere quel cavolo di acceleratore. Tanta. Tantissima. E non mi importa del resto. Sotto questo cielo c'è spazio per tutto, in effetti.
Ma la strada è lunga. Lunghissima. Forse a Montreal dovevo andarci davvero. Forse. Ma è stato giusto così in effetti. Ecco, l'unico rimpianto della mia vita è non essere andato là a spezzare la linea di questa vita.
Ma ora guarderò il cielo di nuovo e sarò sicuro che mi aspetterà qualcosa di nuovo, prima o poi.

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