martedì 12 luglio 2011

Genesi



Ascoltando una vecchia canzone trovata per caso ripenso ai giorni vissuti appena un anno fa, così nuovi, freschi, genuini, seppur nell’afa umida di un giugno travagliato, dove nuove strade venivano tracciate sul palmo delle nostre mani.

C’erano i grilli, le lucciole e qualsiasi altro piccolo ammennicolo di puerile e romantico significato. Tutto sembrava disegnato, come in un quadro in cui i dettagli erano l’unica cosa a non mancare, a dispetto delle due grandi figure protagoniste al centro del dipinto, incuranti dell’ambiente circostante, quasi a sé stanti. Cerco di non pensare ai mesi successivi, altrimenti la scrittura si farebbe difficile e piena di sofferenza, rabbia, rancore, fatica. Scrivo per come avrei scritto in quei tre mesi, o due e mezzo per l’esattezza.

Nel frattempo la canzone suona e mi riporta indietro a quei giorni, a quelle ore e ore passate in una macchina ad ascoltare le note, troppo spesso sdolcinate e frutto di un qualcosa a cui entrambi siamo avversi, di una radio che trasmetteva solo musica intelligibile alle orecchie nostrane. Amore a buon mercato, fatto per essere acquistato nella forma piatta e circolare di qualche cd “brand new” o, peggio ancora, “hit of the summer”. Non ci curavamo di quell’ipocrisia, cosa per noi molto rara. La tolleranza è sempre il primo sintomo di qualcosa che sta per cambiare, in meglio. Quando ciò che in passato animava i nostri istinti di repulsione inizia a lasciarci indifferenti ci stiamo inevitabilmente innamorando: di un luogo, una canzone, circostanza o persona. In conclusione, non importa di chi o di cosa; come mi disse qualcuno mentre giaceva sul muro di una vecchia rocca isolata dal mondo: “ci si innamora di tutto”.

Così trascorreva il tempo e ad ogni singola ora, volo di lucciola, canzone, il trasporto cresceva sempre più forte fino a rendere quei “no”, dati da una situazione poco stabile, sempre più miseri e fragili nella loro consistenza, come terra seccata al sole in attesa dell’urto che la polverizzi. E pensare che eri tu quello che aveva qualcosa da perdere!
Siamo strani, siamo stati strani, come strano, ma estremamente naturale, è stato l’attimo in cui ti ho rivisto, quasi per gioco, per caso. Non sono stata me stessa, ti serbavo ancora rancore per tutti quegli anni trascorsi lontano, dopo quelli passati accanto, ma poi seminati dal tempo, da un lungo lungo tempo che ci ha visti separati. Eppure qualcosa è avvenuto durante la prima ora di mera conversazione, senza che nessuno se ne potesse accorgere, senza manifestazioni: solo lo sguardo. Lo sguardo tradisce sempre. Molto spesso si tradisce più con uno sguardo che non con l’intero corpo.

Non mi guardavi come si guarda una vecchia amica, non eravamo lì per il motivo per cui si ritrovano due vecchi compari. E tutto fu più chiaro quando, al secondo incontro, Battiato suonava quella che descriveva esattamente ciò che eravamo: “La chanson des vieux amants”. Una canzone, un significato. In quel periodo niente ci avrebbe potuto esprimere meglio. Quando qualcosa di così apparentemente forte, sbagliato, contrastante, ci attraversa, non sempre siamo in grado di esprimerci con le parole, molto più spesso si tenta di comprendere, di negare, fino a capire di non poter comprendere, tantomeno negare.
Quel qualcosa scalciava dall’interno per uscire e crescere ancor più grande. Come la castagna forza il guscio, così forzavamo ciò che ci frenava. Quanto erano belli quei giorni: schivi, segreti, solo nostri. Quanto avrei scritto se solo avessi saputo di saper amare, quanto avrei voluto dirti se fossi stata una persona diversa, se avessi avuto un passato meno “solo”, meno “arido”. Ed io che gioivo per il male altrui, in cui trovavo pace e consolazione! Che ne sapevo di come tutto ciò mi avrebbe cambiata, che ne sapevo di come sarebbero andate a finire le nostre strade: incrociandosi ripetutamente per poi unirsi una volta per tutte.

Che ne sapevo allora del rancore che ti avrei portato? O di quanto sarebbe stato difficile? Che rabbia mi fai per aver sporcato un fazzoletto di seta così morbido e perfetto, ma macchiato dal fango. Quel sentimento c’è sempre, ma è ormai così diverso. Posso solo maturare la conclusione che niente è paradisiaco, tutto cambia e diventa difficile, spesso ci si odia, ma bisogna aver coscienza di quel che veramente nascondiamo o finiamo nell’amara illusione di essere andati avanti, quando in realtà ci troviamo immobili a rimirare quell’immagine che tanto ci è cara. Non si vive di finzione, non si ama di illusioni. Quando qualcosa è reale, lo rimane sempre, malgrado tutto l’odio che ti ho serbato per quasi dieci anni, malgrado fossi l’ultima persona al mondo con la quale sarei tornata.

Ho cercato in tutti i modi di fuggire, di trovare la felicità al di là di te… non ci sono mai riuscita. Ho passato anni di crisi nera con il tuo pensiero che, ogni tanto, casualmente, mi attraversava la testa. Perché era la domanda da porsi, ma non ho mai voluto, forse per orgoglio, forse per quella rabbia che portavo dentro. Ebbene, quando qualcuno non ci lascia indifferenti la miglior cosa da fare è chiedersi perché. Vale sempre la pena avere una risposta a ciò che è dentro di noi. L’esterno… quello non conta, non potremo mai avere la sicurezza di ottenere risposte da altri. Ahimè, siamo noi stessi gli unici di cui potersi realmente fidare, per quanto a volte ci si possa ferire o bonariamente illudere.

E riguardo a quei giorni, che altro dire? Vedevo il carro nel cielo, le lucciole, sentivo le morbide note e l’aria calda su di una pelle che, per quanto amata, non aveva mai amato in prima persona. Questo è tutto ciò che voglio ricordare, perché in fondo, quando si decide di andare avanti, è tutto ciò che conta.

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