martedì 13 dicembre 2011

Point of origin



Pungente. Questo bisogno di scrivere, di gettare fuori con la forza inversa di un tornado, è decisamente pungente. Ma se mi chiedo cosa vorrei scrivere, di cosa vorrei parlare, allora la penna si blocca, anche se di penna ormai non si può piu' parlare.
Troppi pensieri percorrono la mia mente con la velocità di treni erranti che vagano in lungo e in largo su questo pezzo di terra semi-circondato dal mare.
Molti di voi mi danno spunti, ma forse oggi vorrei raccontarvi qualcosa di molto privato: il vuoto.
Sì, ho bisogno di togliermi il ricordo di questo vuoto che a volte ancora mi attanaglia... dopotutto, a che altro serve la scrittura?

Mi sono detta "mai più". Mai più camminerò da sola in terreni ostili e solitari, freddi, bui come tombe dimenticate. Mai più perderò l'amore per me stessa scambiandomi per tante altre lapidi abbandonate.
Non voglio pensare a quei ricordi in cui non ero niente, perché questa è la definizione di ciò che ero: un nulla, viva ma senza vita. E tralasciamo i convenevoli e la scrittura poetica ed elegante, sia per l'ora tarda che per la comprensibilità del testo. In fondo un testo deve essere, come prima cosa, chiaro, o si perde l'abitudine alla lettura e, per quanto mi riguarda, non ho nemmeno niente da sfoggiare, né sono interessata a farlo.

Ero un nulla, poiché come si può qualificare una persona spenta? Brulla? Apatica? Inesistente forse. Ora so che mi ero semplicemente persa tra mille abbandoni, il che aveva infine causato la perdita di me stessa. Mi dispiace per il poco rispetto avuto, per gli obiettivi folli che mi sono posta, per le persone coinvolte ed innanzitutto per ciò che ho chiesto a me stessa: troppo.
Non puoi fallire, non puoi sbagliare, c'è solo una strada...
troppe notti solitarie mi hanno portato ad essere realmente sola, lontana anni luce da chi avevo accanto, da coloro con cui non riuscivo a comunicare. Nemmeno un riflesso di me era visibile. Eppure ho trovato persone che, nonostante tutto, hanno saputo volermi bene. Ma quella sensazione di volersi perdere tra mille persone, strade, idee e pensieri, continuava ad essere travolgente. Lo spingere, spingere ed ancora spingere fino a vedere fino a che punto si può arrivare prima di distruggersi, era una malattia di cui ancora soffrivo, senza speranze.

E' stato un percorso, ma a volte è un sentiero da cui non si esce; non serve volontà, serve perseveranza, esperienza, perché non tutto risulta visibile e, come ben sapete, troppo spesso si tende a dare per inesistente ciò che semplicemente non siamo in grado di scorgere.

Vedere per credere, toccare per convincersi che sia vero. Questo è il motto dei non folli.

Come quando ci si sveglia in un luogo sconosciuto, io non so spiegarvi come sia giunta qui, non so spiegarvi come possa aver attraversato quel freddo, ne' come possa vedere talmente tanto buio dietro, ed in parte dentro, di me.
Non capisco, ma giustifico la dolce arrendevolezza dell'indifferenza, le corazzate poste tutt'attorno, atte a non incorrere in danni ulteriori.
Non capisco il male, ma so che capita.
Colpa mia? Forse. Parliamo di un episodio in particolare da cui tutto ha avuto inizio? Forse no.
E' tutto un girigogolo di sensazioni rappresentate da un purissimo grigio plumbeo, assai peggio del nero che prima o poi passa, così incostante...

Non so raccontarvi cosa significhi essere finalmente aperti al bianco che la vita può portare, alla sensazione di calore che so dove trovare, ma che parte da dentro...
Non trovo altro paragone di me stessa se non quello di un umile cane randagio che, smarrito tra le vie di una città che non gli appartiene, dopo innumerevoli scorribande verso ciò che a malapena permette la sussistenza, si ritrova circondato da mani amorevoli, una cuccia, cibo... un collare.
Avete mai provato ad accudire un cane randagio? Se sì conoscerete bene la sua scostanza, la sua totale sfiducia, il tentativo di correre verso la strada a cui non appartiene, perché nessuno appartiene alla strada, ma allo stesso tempo la sua impossibilità di scappare e lo sguardo nei suoi occhi che si scusa per ciò che è diventato, per cosa la vita ha avuto in serbo per lui. L'incredulità prima della riconoscenza...

Il cane randagio rimarrà sempre randagio, ma ogni giorno è una perla, una rassicurazione verso quel tetto che, mano a mano, diventa più stabile, più sicuro, fino a far scomparire l'innaturale desiderio di fuga. Non so dirvi in quale tappa io mi trovi, so che, come per ogni randagio, questa casa non mi è dovuta, è un dono a cui ancora stento a credere. Ed il passato fa paura, perché so cosa giace al di là di queste mura oltre le quali non vorrei più andare.
Il motivo? Il calore. Strano da spiegare, difficile da capire. Penso sia proprio il calore ad indirizzare le nostre azioni. Non siamo forse sempre in cerca di quella dolce ed avvolgente sensazione materna? Quell'essere avvolti da tiepide e rasseneranti acque... l'unica conclusione a cui posso giungere è che l'uomo, per quanto vada avanti, cerca sempre più di tornare indietro, all'origine, ad un frammento di quelle sensazioni in cui tutto era pace, in cui il male non aveva da esistere.

Non so cosa rappresenti quel calore: gioia, amore, quiete? Ognuno gli dia il nome che più preferisce; da quando il mondo è stato creato i nomi non sono serviti a niente, se non a portar avidità, incomprensioni, ferocia.
In fin dei conti era di questo che volevo parlare, così, senza neanche accorgermene, ci sono arrivata, passo dopo passo e la cosa migliore è che questo pezzo di pagina non serve che a me stessa, non ha bisogno di lettori per espletare la sua utilità. Ma eccolo a voi, per chi avrà voglia di leggere, di sentirsi meno solo nel buio, o più fortunato nella luce. Buone Feste.

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