mercoledì 8 febbraio 2012

La strada innevata

Il campanello suonò, in quel caldo pomeriggio di fine settembre. Suonò in un periodo in cui non ero più né il primo né l'unico, né avevo speranza di essere l'ultimo.
Ero stato sostituito nel cuore di chi ancora era sin troppo presente, da non meglio precisate ed inutili puntate nella zona rossa della vita.
Mi faceva strano pensare che chi dava un elevato valore assoluto a determinati aspetti ora si rifugiasse nell'effimero, nell'indefinito, nel volutamente sciapo e denigrasse l'amore inteso come forza, ma anche come sofferenza.
Il campanello, come dissi, suonò, ma non aprii. Feci finta di non essere in casa, nonostante l'Eroica fosse parcheggiata fuori, lungo il mio marciapiede, e se avesse avuto gli occhi avrebbe assistito a tutta l'ipotetica scena.
Adesso penso che tutta quella sofferenza, tutto quel sentirsi ultimi sia stato un passaggio obbligato, che conferiva una forza indiscussa alla mia vita: era la forza di sperare ancora, che non ho mai perso.
E così fu, nei mesi successivi: non smisi mai di sperare. Speravo però in un avvenimento diverso, ovvero il "rientro in porto" della felicità, e sbagliai anche a segliere obiettivi, e a forzare i tempi per le cose belle.
Poi, quando il momento sembrava essere poco propizio, in una nebbiosa, piovosa giornata in cui i chilometri si sprecavano e gli intrecci tra passato e futuro non esistevano più, irruppe qualcosa dentro di me.
Ci sono eventi in cui non riesci a staccare di dosso gli sguardi da una persona, che ti pare una fortezza ottagonale inespugnabile, e corri dall'altra parte della sala anche per fare 2 chiacchiere, per tentare di stabilire un feeling, in primis con te stesso, tentando di capire.
Nei viaggi di ritorno a piedi da quel tavolo rimanevo estasiato da quello che provavo: credevo di essere uno che sapeva di nuovo come si muove il sangue nelle vene, come si muove la vita all'interno dei cuori.
E così fu: lo percepivo la mattina successiva, quando non mi importava granché delle macchine bellissime che si trovavano al di sotto della stanza in cui si chiacchierava e quell'attrazione come una calamita mi portava sempre più vicino.
Passai il viaggio di ritorno stranamente ad ascoltare gli altri, e a rendermi conto che la vita riparte quando meno te lo aspetti.
E fu così che lanciai il sasso, e in una grigia sera, che diveniva sempre più scura, qualcosa irruppe dentro di me con una forza del tutto inaspettata: era qualcuno che si è piazzato nella parte più profonda del mio cuore, del mio cervello, della mia mente, a soffiare forte sulle nuvole che c'erano, mandandole via definitivamente, salendo lì, proprio al primo posto.
C'era il suono dell'inverno, il profumo della nebbia, lo sciaguattare degli pneumatici larghissimi sulla strada sempre più bagnata e una canzone che risuonava nell'abitacolo.
E al ritorno che non finiva mai, le mille domande non facevano male, ma anzi facevano bene, e fanno bene ancora oggi.
Oggi le strade sono innevate, e fuori sembra di essere in Siberia. Ma non avrò mai freddo, con te accanto.

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