mercoledì 4 gennaio 2012

Controvento forza 8


Era l'inverno 2006-2007. Gennaio era iniziato con un freddo pungente, di quelli che però ti fanno apprezzare il caldo della casa, del caminetto, della cena calda da assaporare con la calma delle ferie.
Traghetto Piombino-Portoferraio, 14 nodi di crociera. Marmorica beccheggiava, infilando in modo regolare la sua prua tra onda e onda, e gli spruzzi arrivavano sin sul ponte di comando. Soffiava un fortissimo vento di scirocco, quella mattina.
Lo si capì nettamente a Piombino che non sarebbe stata facile come traversata: imbarcai l'Ammiraglia su Marmorica con gesti leggeri e precisi, premendo il tasto "city" per alleggerire lo sterzo, e il marinaio, dopo avermi fatto manovrare anche piuttosto distante dalle altre vetture, mi chiese gentilmente di mettere la prima e tenere il freno a mano tirato.
"Bene, grazie" - risposi, e a me bastava spegnere la piccola Ammiraglia e automaticamente l'accrocchio annaspante frizione-cambio-circuito elettroidraulico faceva tutto da sé e la ancorava alla panciona del traghetto della Toremar.
A poppa le motociclette venivano saldamente legate alla murata della nave, fatto che indica che il mare sarebbe stato molto mosso.
Partii da solo, quel fine settimana, con la consapevolezza di chi aveva fatto tabula rasa di quei soggetti che lo circondavano e lo bombardavano ancora di messaggi sul cellulare, come un copione già visto quattro anni e mezzo dopo.
Partii con la scusa di chi deve portare da troppo tempo delle cose alla casa al mare, ma forse a casa mia sapevano benissimo che non sarebbe stato così. Avevo un tremendo bisogno di riposo, anche se il mio cuore non era minimamente infranto.
Ero un ventiseienne pervaso dalla paura di chi era stato costretto, da tempo, a subire qualcosa di cui era in balia più totale. I sentimenti si erano oscurati come il sole eclissato, e quella luce non tornava mai, in quel periodo. C'era freddo, anche dentro di me, e pure tanto buio, e la costrizione netta nel dare l'apparenza voluta non solo da me che tutto andasse bene.
Mi liberai non senza difficoltà della paura di quelle persone, che ancora oggi, a 5 anni sonati dalla fine del gioco, ce l'hanno con me.
Comunque sia, quella mattina Marmorica affrontò il mare da vera Signora. Si faceva sballottare dalle onde, e gli spruzzi le accarezzavano la vernice bianca, in quella danza simile a quella del toro meccanico.
Andava controvento, Marmorica. Affrontava la mareggiata, mentre i suoi passeggeri faticavano bestialmente a stare in piedi e mentre io cercavo di seguire, con leggeri movimenti del collo, la prua e pensavo che non saremmo mai arrivati. Non volevo arrivare, quel giorno. Volevo che quel viaggio si prolungasse col mio carico di tristezza, col fardello di pianti che fanno male alla gola, alle ossa, alla testa, che mi portavo dietro in quel periodo.
Mi volevo crogiolare su quella sofferenza che giustificava tutto, ogni azione, utilizzata come valvola di sfogo per non affrontare una realtà che mi avrebbe messo di nuovo alla prova.
Tra un'ondata e l'altra vi era un susseguirsi di forze centrifughe che riportavano alla mente i ricordi che stavano sotto.
C'era la voglia di star solo e passeggiare sul mare con le giornate limpide, di riflettere su quello che ero stato e quello che avrei voluto essere.
La nave ha un'anima. Chissà quante mareggiate ha affrontato questa nave nei suoi 27 anni di vita, pensavo. Chissà quanta gente si è amata qui, ha riso, pianto, vissuto, ha sofferto il mal di mare.
Ma chissà quanti si sono incantati a guardare il mare stupendo da questi finestrini.
Passai 2 giorni a guardarmi dentro poco e a guardare parecchio il mare dalle scogliere e dalle montagne. Il mare il sabato si calmò, come mi calmai io. E direttamente proporzionale alla calma del mare saliva la mia voglia di fuggire dalla maturazione che incombeva come una spada di damocle da tempo e che non sarebbe ancora arrivata, forse oggi.
Ripresi la nave con gesti meccanici, tornai a casa e non capii. O non volli capire cosa stava succedendo.
Lo feci per anni. E non arrivai mai in porto. L'ho fatto fino a poco tempo fa, ho avuto questo viziaccio di trasformarmi in colui che fa finta di star bene con se stesso.
Non ci sono mai stato, in effetti, nemmeno per un minuto, se non coadiuvato, negli anni successivi, da obiettivi che prontamente si presentavano più lontani, sorpassato dai "primi che vedevo andare via"...
Partii in quei giorni, cercando qualcosa di magico, che puntualmente non trovai. E arrivai vuoto al capolinea. Come sempre succedeva ed è successo per anni.
E allora credo che dobbiamo star bene con noi stessi per poi stare con gli altri. E' la stolta, solita, banale verità che rimbalza in diecimila telefonate, discorsi tra amici, quando la notte avvolge tutto e dopo di lei non c'è il sole, quando la tua macchina va troppo piano, nonostante i lampioni scorrano sin troppo veloci accanto a te, e il contakm segna velocità astronomiche del tutto inutili e del tutto commisurate alla tua tristezza di fondo. Il problema è che nonostante tutto, il percorso non lo dividevo e non volevo far sapere a nessuno come realmente stavo. Un brutto carattere, una brutta pantomima tenuta per anni. E l'attore sin troppo permeato dal suo ruolo che difficilmente riusciva a staccarsene.
C'è la necessità di dividere, allora, qualunque passo si fa. E' la soluzione.
Per lo meno, ne ho la necessità.
Questo viaggio, col mare mosso, non voglio più farlo da solo. Non mi nasconderò più dietro mezze verità, dietro giustificazioni assurde. Sarò per sempre quello che realmente sono.

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