martedì 11 settembre 2012

Girarsi indietro sull'autostrada dei sogni


Pensavo di scappare eppure qui c'è una valvola di sfogo difficilmente sostituibile. 
Autostrada A1, 130km/h. Non piove più, adesso. La terra non si è ancora ripresa da lunghi mesi di siccità, e nel mio giardino la magnolia lotta, ancora, per sopravvivere, come se volesse strappare le sue radici, muoversi e andare a bere altrove. Sembra quasi apprezzare i miei tentativi di recupero, di annegarla con tanta acqua, e con la forza che ci contraddistingue sempre e comunque sembriamo molto simili.
L'A1 è stata l'autostrada dei sogni, nelle sue varie direzioni. Nella mia vita l'ho percorsa tantissime volte. Ho calcato il caldo asfalto estivo con la Punto Cabrio, prima nelle circoscritte colonne d'Ercole della Toscana, quando andare a Barberino di Mugello pareva quasi un viaggio avventuroso.
Poi vennero le varie passiste autostradali, sempre del tutto inadatte all'ambiente largo e piatto dell'A1.
Non importa con quale mezzo l'ho percorsa, a dire il vero.
Torno indetro, nel piccolo tratto fino alla Firenze Siena.
A Firenze Impruneta si vedono già i cartelli per Siena e Grosseto, quei tre numeri così familiari e che, nei momenti tristi, appaiono in modo incontrovertibile nella mia mente, quel 223 che era anche stato il mio numero di gara. Ma quale gara corro adesso? 
Mi viene da piangere, senza un motivo preciso: la lacrima corre velocissima sulla mia guancia, mentre transito nella corsia Telepass.
Così fu. Il nostro viaggio pareva finito, in effetti. Mancano i nostri momenti felici, il nostro amore incondizionato, i sogni che coltivavamo e io coltivo ancora, come un ragazzino testardo, sordo e cieco a cui non manca la fantasia, né la capacità di costruire le cose tanto agognate.
La mia mente si focalizza su un viaggio di ritorno da Bolzano, dopo 3 giorni fatti di abbracci mai forzati, di un caldo intensissimo sotto le nostre coperte fatte a fagotto, di urla di gioia, di un trenino pieno di finestre ampie che danno sulle vigne, di una vasca calda alle terme, di un cibo ottimo e di una birra tanto scura che ci entrava dentro benissimo.
Non è solo l'amore che ci legava che in effetti si è perduto. Sono andate ad arenarsi anche le navi cariche di complicità, della fiducia che ha chi crede nell'altro e nelle prospettive future che a 31 anni fanno capolino in modo inevitabile.
Mi giro indietro, di nuovo. Guardo a quella Statale strana, che è cambiata. Guardo a quella diversa, sbagliata ed eccessiva complicità che avevamo, ai periodi bui successivi, ad un qualcosa che pare rimasto intentato e che affonda le sue radici in un passato in cui il cuore batteva fortissimo e che ho avuto l'illusione di ricreare.
Poi, col tempo, la fatica soppianta l'entusiasmo e le giustificazioni alle domande sempre più forti e poste ad un ritmo incalzante hanno sempre il solito, dolce, tono "...era l'inizio....".
Mentre i Puddle of Mudd urlano una versione moderna di Gimme Shelter nella mie orecchie, la voglia di vivere di nuovo è tanta. Vivere, non sopravvivere.
Shelter, rifugio.
E' quello di cui avrei bisogno adesso, di un rifugio. Perché "...war, children, is just a shot away...".
Rimpiango quel periodo in cui ci prendemmo per mano, a vicenda, e tu che sei qui dentro sai di cosa parlo.
Le nostre mani intrecciate erano incorniciate dalla verdi vigne che spingevano via, nel rosso del tramonto, il colore intenso dell'Eroica parcheggiata con le quattro frecce. Ce l'avevamo fatta, in quell'istante. Ma in quello dopo le guerre che combattevamo, del tutto separate, ci portarono via.
Non ho rifugio dalla pioggia di bombe che nella fredda, terribile, dolorosa, odierna normalità, mi cade addosso per mia esclusiva responsabilità.
"...Non dovevo, eppure l'ho fatto..." (cit.).

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